giovedì 30 ottobre 2008

IL funerale dell'Università

Fonte Aldo Schiavone - La Repubblica
L´inasprirsi dello scontro sulla scuola � in Parlamento e nelle nostre città � è una pessima notizia per il Paese. Un´Italia preoccupata, abbuiata e stanca, sull´orlo di una pericolosa recessione (ma Tremonti ieri ha appena detto che ci aspetta qualcosa di ancora peggiore), avrebbe bisogno d´altro che di un´inutile prova di forza. Stia attento il presidente del Consiglio, e non sottovaluti l´iniziativa del Pd di chiedere un referendum. Le opinioni cambiano, l´inquietudine è forte, e ci vuol poco a finire in un vicolo cieco.Quanto all´Università, siamo di fronte - e già da mesi - all´annuncio di una morte. Avverrà fra l´inverno e la primavera del 2010. Se i provvedimenti assunti da questo governo non verranno modificati, in quell´arco di tempo gli Atenei si vedranno trasferiti dallo Stato circa 600 milioni di euro in meno, rispetto alle già magre quantità attuali: su un budget complessivo, cioè, che non arriva a sette miliardi. Tenuto conto della composizione della spesa - con la grandissima parte dei fondi statali destinati alla retribuzione del personale, docente e tecnico amministrativo - si tratta di una riduzione assolutamente insostenibile.Una specie di devastante bomba a orologeria, innescata non in conseguenza della crisi dei mercati finanziari, ma già da prima e a freddo, con l´unico effetto di creare un´ennesima e gravissima emergenza, un altro stato d´eccezione scaraventato sulle famiglie italiane - soprattutto sulle giovani generazioni, il cui futuro si mette così a rischio in modo irresponsabile. Le Università - almeno una forte maggioranza - dovranno dichiarare lo stato d´insolvenza, e probabilmente non saranno più nemmeno capaci di pagare gli stipendi. Secondo quanto prescrive la legge, verranno commissariate dal ministero. Per farne che? Chiuse, vendute ai privati, una volta scorporati i loro debiti, come Alitalia? Non si sa. L´unica certezza è questa: che dopo non esisterebbe più, e di colpo, un sistema universitario italiano in grado di funzionare. Per un Paese moderno, sarebbe l´apocalisse. È possibile che qualcuno la voglia davvero? E cosa accadrebbe, poi? L´Università italiana è attraversata da distorsioni non superficiali, sulle quali si avventa da tempo un qualunquismo scandalistico e trasversale, di destra e di sinistra. La radiografia di questi mali è una registrazione impietosa di quasi tutte le ombre della nostra storia repubblicana: dalla miopia e dal provincialismo di una parte cospicua delle classi dirigenti, a una cultura sindacale che, quando è uscita dalle fabbriche per entrare nel pubblico impiego, ha finito con l´assumere quasi sempre un ruolo conservatore, schierato a difesa di piccole nicchie di privilegio. E vi sono, poi, certo, responsabilità più dirette che riguardano il comportamento del ceto accademico. Ne rispondiamo.E in particolare, resta il fatto che abbiamo usato generalmente in maniera deludente e corporativa uno strumento prezioso: l´autonomia degli Atenei, voluta dal più grande ministro dell´università che l´Italia abbia avuto nel dopoguerra - l´indimenticabile Antonio Ruberti. Ma siamo però riusciti a costruire negli ultimi decenni - pur partendo in grave ritardo - un´università di massa le cui performances complessive sono fra le prime del mondo (come rivelano bene gli dati del QS World University Rankings, la cui lettura consiglio a tanti critici improvvisati): con laureati che non temono confronti rispetto alla media europea e americana. E con docenti che girano ancora a testa alta da Parigi a Los Angeles. Immaginare adesso che tagli di bilancio della dimensione prevista siano una specie di resa dei conti, o una sorta di abnorme espiazione per gli errori commessi, non ha alcun senso istituzionale né politico: perché non siamo innanzi a una terapia, anche estrema, ma solo a una indiscriminata decimazione di massa, che si ripercuoterebbe innanzitutto su giovani senza colpa alcuna - quegli stessi che oggi stanno prendendo coscienza della loro condizione, e che forse la sanno già più lunga di quel che noi si pensi.La prima cosa è dunque battersi per scongiurare questa assurda minaccia: che il 2010 non sia la data di una morte premeditata, e che l´intero sistema universitario italiano possa attraversarlo indenne. Il ministro si impegni in questo senso di fronte al Paese. E insieme, le Università avviino un´autoriforma limpida e coraggiosa dei propri comportamenti e dei propri profili istituzionali. Per cominciare: riduzione drastica dei corsi di laurea, con un rapporto equilibrato fra lauree triennali e magistrali. Riduzione non meno severa del numero delle materie insegnate e degli esami da sostenere in ciascun corso.E poi ancora, riduzione delle sedi distaccate, la cui apertura indiscriminata si è spesso rivelata un´operazione soltanto clientelare, e revisione dei meccanismi di governance, per garantire esiti più trasparenti e con più ricambio. E infine autovalutazione, per individuare all´interno di ciascuna Università i punti di maggior forza qualitativa dal punto di vista della didattica e della ricerca. Risorse aggiuntive potranno essere conferite agli Atenei solo di fronte a risultati importanti raggiunti nelle direzioni indicate. Insomma, fondi in cambio di autoriforma.Sono convinto da tempo che, per quanto sia stata in genere male usata, l´autonomia universitaria resti un bene da difendere strenuamente, e che in questo campo lo Stato meno intervenga meglio è. Ma su alcuni pochi punti occorrerebbero provvedimenti tempestivi: il reclutamento della docenza; l´accesso dei giovani alla ricerca, con nuove regole per i dottorati; un sistema efficiente di valutazione per misurare il lavoro svolto da ogni università. Che il ministro (sinora silenzioso su questi temi) faccia la sua parte: ascolti, valuti, scelga; e poi, si presenti in Parlamento. È così che funziona la democrazia.

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